I diari di Mara - Viaggio nell'Hoggar - 9

02-11-2010



2/1/1985, Mercoledì

E’ passato mezzogiorno e siamo ancora qui. Naturalmente non siamo partiti, nonostante le assicurazioni di quello dell’agenzia.


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Ma adesso si è capito forse il perché. Dall’Italia non ci hanno segnalato all’Air Algerie come in partenza da Tam per Algeri: come gruppo non esistiamo proprio.

E fino all’8, e forse al 9, non ci sono voli liberi.

Qualcuno va a Tam per tentare di mettersi in comunicazione con casa. Chissà se ci riusciranno. L’attesa si prolunga, il morale, abilmente mimetizzato da euforia, è a terra. Ma il gruppo d’assalto sguinzagliato in città ha avuto 1000 idee: oltre a comprare viveri per tutti si sono rivolti alla polizia, da lì a quella di frontiera, poi all’Air Algerie, alla Posta per tentare di telefonare al consolato (ma niente da fare), al Ministero dell’Interno, due telex, Pic ad Avventure nel Mondo, Ettore dalla torre di controllo all’Air Algerie di Algeri. Qualcosa comincia a muoversi, si sente nell’aria. Euforia forse esagerata. Intanto è partito il telegramma per casa.

All’una e passa qualcuno è ancora scettico, ma fino alle 2 ad Algeri, all’Air Algerie, non riprendono a lavorare. Intanto si prospettano le soluzioni più svariate: prendere un pullman, ma sono 4 giorni di viaggio se tutto va bene; o un’auto, ma costa un milione, e poi pare che le strade siano interrotte per piogge e inondazioni, che ci sia stato anche qualche morto nel Nord. Ma ad un certo punto arriva un telex da Algeri, alla torre di controllo, a Robert-pas-de-problèmes. Dice che in seguito alle forti pressioni, resisi conto della situazione, forse anche in seguito all’intervento della polizia alla quale avevamo chiesto asilo (rischiavamo di rimanere senza soldi), stanno allestendo tre voli speciali per i prossimi giorni. Qualcuno non ci crede, io sì. All’improvviso, materializzatosi dal nulla, venuto in volo da Djanet con un aereo che noi non potremo prendere, ecco Kirani. Pic crede in un miraggio, ma è proprio lui. In alto i cuori: la magia riesce. Partono ben 12 dei 32 italiani, perché ormai siamo un gruppo unico, unito dalla sventura: i 4 romani, i 2 milanesi, Paolo lo spolverino, Steno che rischia il licenziamento, Rossella, Bea. La magia riesce anche perché “la sala d’aspetto” è stranamente semivuota: ci sono davvero dei posti liberi. Josè è un po’ inviperito: gli scade il visto il 4, deve andare a Parigi, ecc., ecc. Affanno frenetico, quando non si sa ancora chi parte, chi vuol portare le valigie da Robert che le controllerà per la notte, chi le vuole tenere lì. Qualcuno ha un po’ i nervi a fior di pelle. E chi non parte, dove dormirà? Robert potrebbe ospitare 12 donne, si potrebbe ricercare Moktar, al camping non hanno più posto, all’Hotel ci sono 2 sole camere, campeggiare intorno all’aeroporto non si può più: pareva di sì (dalla torre di controllo), ma la polizia ha detto di no nel raggio di 5 km.

Appollaiati, coricati, seduti per terra, abbiamo perso ogni dignità.



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La torre di controllo tuttavia è la nostra centrale operativa e questo ci dà sicurezza. Infatti è di lì che, aumma-aumma, riusciamo improvvisamente a trovare 8 camere all’Hotel: 32 – 12 ci staranno ottimamente. E poi, caricati i bagages nella torre, animo e spalle leggeri, chi in auto, chi in pullman, si torna al Tahat, zozzo quanto mai. Noi riformeremo il Trio Lescano con Pic.

Terza passeggiata di Doro a Tam, dove era già andato per cambiare al nero (che è tre volte quello ufficiale): acquisto di gri-gri e schesch.

Cena con ospite Robert, giro interessato all’aria aperta (i gabinetti del Tahat sono impraticabili), controllo cassa, sempre più vuota, e notte.

Chissà quelli ad Algeri come se la stanno passando e se hanno telefonato a casa. I 2 padovani, “i tristi”, sono proprio 2 stronzi: e questa è la considerazione finale.





3/1/1985 Giovedì


Sveglia alle 7, colazione: primo casino, il pullman è venuto a prenderci alle 7 e se n’è già andato. Affanno: ai taxi non si può telefonare, passano loro (quando gli gira) e Kirani aveva detto ieri di essere all’aeroporto “alla” otto. Sono già quasi le otto. Ma in qualche modo, alla spicciolata, i biglietti in testa, si arriva. Tira una brutta aria: non solo è nuvolo, ma la “sala d’aspetto” è piena, piena che di più non si può. Bagagli, gente sparsa, gruppi. Ci stringiamo a fortificazione intorno ai nostri, già recuperati dalla torre, e comincia l’assurdo. L’impensabile, ancora una volta, è realtà. Il bancone, che è poi un muretto di cemento, è preso d’assalto, gente che ci sale sopra a cavalcioni, in ginocchio, in piedi, urlante, sporca, impolverata, bianca, nera, marroncina, con scarponi Asolo, tacchi a spillo consumati, vecchi mocassini logori, infradito. Non si respira fra fumo, polvere, puzze varie. La ressa si infittisce, arrivano i poliziotti in grigio-verde, con elmetto bianco e striscia rossa, sottomento che invece sta sotto al naso, manganello di legno tragicamente usurato o malamente scolpito. La loro caratteristica precipua è di essere di un buon mezzo metro più bassi della statura media. In compenso strillano e roteano manganelli.



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Passano fortunati in qualche modo, orribilmente pressati, spinti, schiacciati, scaraventati. Le urla dal bancone sono allo spasimo, la polvere volteggia, ad un certo punto volteggiano anche dei bagagli: sono alcuni francesi che hanno pensato di fare una catena per far passare i propri. Che organizzazione! Arriva però un poliziotto che si ferma nel punto più opportuno per interrompere la catena. Ma ecco che arriva Giorgio C. con una notizia: partiamo anche noi! Abbiamo 20 carte d’imbarco! Urla di gioia e di incredulità. La tensione crolla. A me sfuggono lacrime. Volano i bagagli nostri con ritmo perfetto, con loro noi, metaforicamente.

Altra massacrante impresa per entrare nell’anti-sala d’imbarco. Ancora casino, perché stiamo per imbarcarci sull’aereo sbagliato, quello per Costantine. Chiarimento. Attesa. Si smangiucchia. Poi, dopo qualche attimo di grottesco incidente (manca la maniglia per aprire la porta della sala d’imbarco, di qua bussano, di là urlano), risolto dal capo poliziotto che arriva trionfante con la maniglia, si passa una “meticolosa” (!!) perquisizione dei bagagli e poi finalmente all’aperto (ma prima assistiamo alla multicolore sfilata dei passeggeri in arrivo).



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Ultima suspence: hanno scoperto la bombola di gas in uno zaino. Kirani interviene.

Si sale in aereo, ma forse i bagagli sono sull’altro, già, perché ce ne sono due, uno dei quali straordinario. Chissà. Alle 12,30 rolliamo, il Boeing 737 dell’Air Algerie decolla alle 12,40. L’arrivo ad Algeri è previsto fra 2 ore e 15 minuti. Riusciremo a prendere l’aereo per Roma delle 15? E’ quasi impossibile. Ma intanto, sospesi in quel cielo, mi sento male: non è il fisico, è la mente che vacilla. Ce ne andiamo finalmente, eppure vorrei restare. Il deserto laggiù mi affascina, mi attrae, mi afferra l’anima.



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Fino a mezz’ora fa avremmo fatto carte false per partire e adesso mi vien da piangere. Ma è proprio vero che esiste il mal d’Africa? E’ una sottile tristezza, una subdola malinconia, è voglia di restare, è voglia di inginocchiarsi sulla sabbia, di toccarla, di farla scorrere fra le dita, di sentire il vento, di rincorrere il silenzio, di guardare il cielo stellato, di pensare ai poveri bimbi dagli occhietti cisposi, ai Tuareg dagli occhi neri, a quell’universo fatto di niente, a quel niente fatto di tutto, di attesa, di contemplazione, di umanità, di poca erudizione, forse, ma di ricchezza d’animo. E’ l’Africa, o il nostro sogno d’Africa? E’ un miraggio di vita, di pensiero, di sensibilità? O è la vita, il pensiero, la sensibilità? Africa, a presto, ancora una volta.

 L’aereo a Roma non si prende, nonostante le chiamate via aereo per trattenerlo. Le formalità doganali sono troppo lunghe. Allora si cerca affannosamente di cambiare il volo per Milano e Pic ci riesce grazie a un certo Kouba, anche se qualcuno resta ad Algeri. Visita al lussureggiante duty-free di Algeri, acquisto di datteri.

Saliamo così alle 20 sul DC 9 per Milano, dopo check-in, passaggio dogana, passaggio metal detector, passaggio perquisizione, il tutto accelerato dal predetto Kouba.



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Pic sale in 1° classe (omaggio dell’Alitalia, che si vede di colpo 20 passeggeri in più), ma non saprà trattenersi alla vista della pagnottina che rotola per terra dal vassoio: la raccoglierà e se la mangerà. Che strazio!

Noi intanto siamo estasiati. L’aereo è bello, moquettato di verde come le divise delle hostess, tutte profumate (che strana sensazione!). Ci offrono giornali e poi, con generale sorpresa, un vassoio arancione. Lo apriamo e oh! L’”italian style” è veramente sopraffino. Tutto è incartato e sigillato, tutto è in ordine: una fettina impanata e due di arrosto, insalata, crek, pagnottina, sale, pepe, zucchero, latte in polvere, salviettina profumata, tovagliolino, bicchiere sigillato e doppio, chianti Ricasoli. Sul fondo del tazzone per il caffè occhieggia un formaggino Galbani: ci fa piacere, da 4 giorni non ne mangiamo.

Festeggiati come eroi, con il nostro capogruppo reduci dal Sahara, andiamo quasi in cabina di pilotaggio e siamo quasi tutti lì, tanto che esce il comandante e ci dice “questo non è un aeroplano, è un casino”. Però ride. Poi ottengo, grazie a doti divinatorie, ben 7 salviettine profumate di cui indovino il numero e fra risate, euforia, ecc. atterriamo felicemente a Linate alle 21,40. Peccato! Saluti festosi dall’equipaggio.

All’aeroporto, sorpresa per le porte con cellule fotoelettriche, carrelli, luci, tutto bello. Telefono casa. Che bello, anche questo!

Si pensa di noleggiare un pulmino Hertz, ma costa 250.000 lire e allora prendiamo il treno dopo il trasferimento in pullman alla stazione Centrale. Sono le 23, parte alle 00,02 e arriviamo a Torino alle 1,50. Combinazione c’è un treno per Asti alle 2,10. Lo prendiamo quasi al pelo con Pic e alle 3 e passa siamo ad Asti. Depositiamo gli zaini – pesanti! – al bagagliaio e ci incamminiamo, ricchi di storia e d’esperienza, per una fredda e solitaria città tutta per noi.

Al Ligure le nostre strade si separano. Baci finali: siamo stati bene insieme.

Passiamo da mamma a prendere le chiavi, chiacchiere, alle 4,52 siamo a letto. Alle 5,05 dormiamo.

Africa, mi sei dentro. Questa casa mi sta stretta. A presto!